Breve storia di una leonessa da tastiera - Fil Rouge n. 33
“Pronto, Arianna? Sono Francesca, quella che (…) come scrivi su X”
Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa… Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne…
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.“Mattutino”, Louise Gluck
Cinque minuti per scoprire il tuo nome, dieci per sapere che lavoro fai, quindici per avere in rubrica il tuo numero di telefono: breve storia di una “leonessa da tastiera” smascherata. Succede sui social, accade ogni giorno a milioni di persone, ma per la prima volta nella vita decido che voglio sapere il perché. Perché una ragazza si nasconde dietro un falso nome per calunniare qualcuno?
Telefono. Sono le 22.30. “Pronto, Arianna?”. Mi presento. “Sono Francesca, quella che (…) come scrivi su X”. Probabilmente, non è usuale che il soggetto di un insulto sessista esca dalle righe di un post, digiti il tuo numero di telefono e ti faccia questa sorpresa. Infatti, dall’altra parte del telefono, Arianna (non è un nome di fantasia) rimane un attimo in silenzio. Non sto telefonando per difendermi, nemmeno per insultarti. Non telefono per minacciare, non ti sto parlando di avvocati, vorrei solo sapere perché, Arianna. Perché confondi la legittima opinione con la calunnia? Perché credi che il web sia una piazza diversa dalla piazzetta della tua città, quindi senza nessun tipo di conseguenza quando ti impegni per diffamare la prima persona che passa? E ancora, perché credi che possa tutelarti un nome fake, pensando che nessuno possa risalire alla tua vera identità?
Dall’altra parte, non ci sono molti mezzi per sostenere la conversazione, me ne rendo conto dopo pochi minuti. La prima risposta è “Scusa se sono stata un po’ antipatica”. Antipatica? Provo a farmi aiutare dall’etimologia, antipatia: dal latino antipathīa, che deriva dal greco ἀντιπάϑεια, composto di ἀντί ossia “contro” e πάϑος ovvero “passione”. Non serve a molto visto che mi sento replicare: “Sì, sono stata odiosa”. No, Arianna, l’aggettivo “odiosa” non c’entra nulla con ciò che sta succedendo e questa non è certo una lezioncina di italiano. Non si scappa dalle notizie del mondo, ma per chi resta in ascolto, a volte è più semplice: si spegne la televisione. Io, però, non ho questa opzione e non ho mai desiderato averla. Da anni racconto di donne e ragazze uccise, di stalking, vendette, denunce che non garantiscono tutela; racconto di stupri di massa, aggressioni notturne, bicchieri drogati, provini cinematografici in cambio di prestazioni sessuali. Di violenza fisica e psicologica, quella più difficile da individuare e chiamare per nome. E oggi, non posso ignorare come faccio sempre. Mentre migliaia di persone ascoltano il discorso di un uomo disperato, Gino Cecchettin, dopo la scomparsa della moglie un anno fa, e l’omicidio di sua figlia a novembre scorso, io credo che sia il caso di farsi molto piccoli, annullare l’ego, e pretendere risposte. Dall’altra parte della cornetta, c’è una giovane e bella ragazza che nelle foto sui social sorride felice. I pensieri nella mia testa sono molti, ne uso due: Leonard Cohen quando cantava In my secret life è il primo.
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Nella sua vita segreta, la persona che ha sbattuto la porta, lasciandolo solo in quella stanza, adesso si trova in un luogo dove spazio e tempo restano sospesi. Cohen riesce a vivere una mattina perduta annullando i verbi al passato. Nella sua testa, stanno ancora facendo l’amore. È una vita segreta, di quelle che si vivono senza parlarne a nessuno, una manciata di minuti ogni giorno. Per qualcuno, un inferno. L’altro pensiero è un’affermazione di Alda Merini che ho sempre reputato molto vera: “La calunnia è una parola impotente che ti riempie sempre di botte”.
“Hai ragione, cancello il tweet”, risponde lei. Ma a me non interessa. Non mi sfiora la parola d’odio, lascio che si perda come un finto “al lupo, al lupo”, nell’aria invernale. Niente mi tocca senza il mio permesso. Vorrei solo sapere perché sia così difficile individuare il confine che c’è tra opinione e diffamazione. Come mai non usiamo le parole giuste? Perché si scambia la calunnia con la “non delicatezza”? Dal dizionario:
calùnnia s. f. [dal lat. calumnia]. – Diceria, imputazione o denuncia, coscientemente falsa, con cui si attribuisce a una persona una colpa, un reato o comunque un fatto che ne offenda la reputazione.
È importante per me, Arianna, spoilerare qualcosa della vita. “Cosa?”. Quando una donna, una professionista, qualsiasi lavoro faccia, è inattaccabile, arriverà sempre una diceria a sfondo sessuale da chi vorrebbe attaccarla.
Spoiler, Arianna. Ti devo anticipare un fatto. Dobbiamo lavorare di più, costruirci un’armatura resistente, andare avanti, ignorare e dimostrare ogni giorno qualcosa di noi: siamo donne. Il nostro grado di professionalità è scritto sulla sabbia, non sul marmo. Siamo innanzitutto troppo magre o troppo grasse e poi forse all’altezza del compito. Siamo troppo truccate, sciatte, con la gonna corta, troppo lunga. Se non ci sono tracce social con un ipotetico fidanzato (serve a un certo punto avere un fidanzato, altrimenti sembriamo strane, solitarie, qualcosa non sta funzionando. Te n’eri già accorta?). Ma sarà che siamo lesbiche? C’è qualche problema? Basta pochissimo per essere lesbica in questo paese: voce rauca, nessuna relazione, indipendenza. Se poi si scopre che sei fan (da fanatic, come dice l’etimologia) della libertà, Arianna, è fatta. Guarda sempre il bicchiere mezzo pieno. Arriveranno gli insulti più formativi, dico io. Perché non si impara a ignorare in un giorno. Ignorare è un’arte capace di uccidere una persona in vita: decido che tu non esisti. E ti confesserò che sono diventata brava in questa arte. Ma oggi, no. Non mi faccio toccare da nulla, ma devo telefonare.
Sono al lavoro, il pianto composto della famiglia Cecchettin è intrappolato nei miei occhi e spendo quindici minuti per recuperare il tuo numero. Internet non è un mondo complicato, faccio la giornalista. Ti telefono. Ascolto un mare di scuse, capisco che siamo su una barca vicino a riva. C’è più superficie che mare. “Capisco che ti senti offesa”, dici. Ma scherzi? Se mi sentissi offesa significherebbe che qualcuno, chiunque, ha potere sulle mie emozioni. No, sono perplessa. Ti chiedo cosa non va nella tua vita per scrivere quello che scrivi. Parliamo e ti dico che l’unica cosa che vorrei è che da domani non ti nascondessi dietro un nome falso su X e scegliessi le parole con cura.
In un mondo in cui i libri di storia si riaggiornano con nuove guerre, ci sono persone che – tra conflitti e cambiamento climatico – perdono ogni cosa: famiglia, casa, lavoro.
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Tra tutto questo male, mi piacerebbe che tu imparassi a volerti più bene. Sarà più facile vivere. Ciao.