Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.Eugenio Montale
Ricetta: muscoli ripieni (alla spezzina)
Un chilo e mezzo di muscoli (ma abbondiamo).
Per il ripieno servono timo, pepe, maggiorana, pane, un uovo, dei muscoli tritati, aglio, parmigiano reggiano.
Per il sugo: aglio, cipolla, pomodoro, vino bianco.
In questo piatto antico cucinato tra La Spezia, le Cinque Terre e il Levante ligure, c’è tutto ciò che potrebbe riportarti a casa se tu pensassi marino, come penso io. Se tu fossi nato nella campagna che si affaccia sul mare, vista scogli, limoni e pini marittimi che sembrano appesi a qualche filo invisibile; non cadono mai, ma hanno la cima che sporge verso giù. I venti gli danno la forma che vogliono. In qualche modo, creano il paesaggio dentro il quale ci sediamo oggi per mangiare i muscoli ripieni. Li conosci? Non uso latte per bagnare il pane, preferisco l’acqua. Uno zero di prezzemolo, non lo so apprezzare. Nel ripieno non metto mortadella o altri insaccati come il prosciutto cotto, ma trito una bella manciata di muscoli che prima ho fatto aprire in padella (con un filo d’olio, due spicchi d’aglio, vino bianco).
Questa è casa mia, ma la ricetta varia sempre un po’. Conosco chi ci mette anche foglie di menta e altre erbette, prebuggiún, dente di leone, che è amarissimo. Qualcuno usa la carne per il ripieno e abbonda con le uova. Io, no. Li faccio così e li farcisco “a crudo” (dopo averli lavati e puliti dalla “barbetta”), cioè senza farli aprire in padella. Bisogna trovare il punto preciso e aprire il muscolo con un coltellino. Non è semplice, il rischio di farsi del male la prima volta è molto alto. È indispensabile munirsi di forza, precisione e pazienza. Una volta aperti e riempiti, li lascio sul fuoco dentro una grande pentola dove borbotta il sugo di pomodoro. Un sugo che in poco tempo incontra il sapore di mare del Levante, vicino a Porto Venere.
Chissà quante volte nel corso della storia, questa ricetta che cambia sempre è finita sulle tavole di qualcuno come Garibaldi, per esempio? Noi che siamo abituati a ricordarlo per l’Unità d’Italia, la massoneria (una delle tante), le guerre (cinque), le battaglie (nove), il mare, la poesia, l’odio per i preti, la politica, l’idea di patria, sì. In questi giorni, però, mi è capitato di immaginarlo – tra una litigata armata e l’altra – mentre sceglie i nomi dei nipoti. Tocca a lui scegliere, e non è una novità. Nella vita lo fa sempre per primo. Anche con Anita, sua moglie. È il 1939. Che l’abbia adocchiata per davvero usando il cannocchiale di bordo dell’Itaparica non sarà facile verificarlo, ma chi scrive la storia ne parla così: la vede, la raggiunge e le dice che deve assolutamente diventare sua. Una specie di terra promessa, evidentemente. Anche se Ana Maria è sposata da quattro anni, ostacoli non ce ne sono. Ha diciotto anni quando incontra Garibaldi, ventuno il giorno delle nozze. Ce la fa anche qui: quello che vuole ottiene. Tre figli e tre figlie. Tra loro, Teresa detta “Tita”, la sua preferita. Carattere ribelle, ma almeno con carattere, suvvia; inutile stare qui a parlare di bimba scontrosa o musona: Teresita (nata il 22 marzo 1845 a Montevideo) non accetta ordini da nessuno. E poi, non è semplice essere la terza figlia di un uomo che decide sempre per tutti. Ma che la ama, a modo suo, da impazzire. Lei ha otto anni quando, in una lettera, legge: “Non pretendo altro che non sia vivere vicino a te e bearmi dell’affetto tuo. Consacrare il resto de’ miei giorni al tuo destino”. Pesante ‘sto papà che la tiene chiusa in casa, relegata sull’isola di Caprera, ricordandole in ogni momento che il destino è segnato. Segnato, sì, con una scritta a caratteri cubitali: tu, non vai da nessuna parte finché non lo dico io. Nemmeno al ballo. Soprattutto al ballo. Che la vede protagonista con il padre, infatti. Che osserva, indaga. Ci sarà qualcuno che piace a ‘sta ragazza inquieta? Sì, ma solo dopo il termine della spedizione dei Mille, a Napoli. Quando gli occhi di Tita incontrano quelli di Stefano Canzio, genovese, 1837. Tutto tace, ma Garibaldi sa leggere anche il silenzio. Il silenzio tra i due, diventa sempre più denso. Nessuno ha abbastanza coraggio per dichiararsi e l’intervento dell’eroe dei due mondi avrebbe fatto la differenza anche stavolta. È lui che inizia uno spietato interrogatorio e fa confessare Stefano. E “tou li”, come si dice a Genova, via con i preparativi di nozze.
Stefano, cugino di Michele Novaro (che ha musicato l’inno di Mameli) sta per entrare in una famiglia piena di obblighi. E Tita se ne accorgerà più di quando era piccola, visto che in ventiquattro anni darà alla luce sedici bambini. Nascono Mameli, Anzani, Lincoln, Annita. È sempre Garibaldi a scegliere i nomi. Così dice la leggenda. Come quella dei muscoli che in altre regioni che non siano la Liguria si chiamano cozze. Eppure, in tedesco si chiamano muscheln, nel Regno Unito mussels e in Francia moules. Chi ha scelto non è andato molto distante dalla radice. La leggenda dice che se in Liguria si chiamano così è grazie a un garibaldino ligure. Il nome? Ignoto.
Sconosciuto come tante cose nella vita di oggi e dell’altro ieri. Come il “profumo dell’eternità”, per esempio. Ne hai mai sentito parlare?
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