Che la volontà della mia bocca e lo slancio del mio cuore siano davanti al tuo volto, mio Signore, mia roccia e mia salvezza.
Salmo 19:14, Siddur, Tefillà sett.
Pedro Salinas lo dice così:
A te si arriva solo attraverso te.
Ti aspetto.
Io sì che so dove mi trovo,
la mia città, la via, il nome
con cui tutto mi chiamano.
Però non so dove sono stato con te.
Là mi hai portato tu.
Come avrei imparato la strada
se non guardavo nient'altro che te,
se la strada era dove tu andavi,
e la fine fu quando ti sei fermata?
Che altro poteva esserci
più di te che ti offrivi, guardandomi?
Però adesso che esilio,
che mancanza,
e lo stare dove si sta.
Aspetto, passano i treni,
i destini, gli sguardi.
Mi porterebbero dove non sono stato mai.
Ma io non cerco nuovi cieli.
Io voglio stare dove sono stato.
Con te, ritornarci.
Che intensa novità,
ritornare un'altra volta,
ripetere mai uguale
quello stupore infinito.
E fino a quando non verrai tu
io resterò sulla sponda
dei voli, dei sogni,
delle stelle, immobile.
Perché so che dove sono stato
non portano né ali, né ruote, né vele.
Esse vagano smarrite.
Perché so che dove sono stato con te
si va solo con te, attraverso te.
Insomma, siamo luce e ombra. Ma l’ombra è solo per chi ci ama. Perché sta bene anche lì, nei nostri quartieri più malandati. E noi con lui. Un grande maestro spirituale, Jiddu Krishnamurti, scrive:
Andare al di là del pensiero e del tempo realmente – cioè andare al di là del dolore – vuol dire essere consapevoli che c’è un’altra dimensione chiamata amore. Ma non sapete come raggiungere questa straordinaria sorgente – cosa fate dunque? Se non sapete che fare, non fate niente, non è vero? Assolutamente niente.
Allora intimamente voi siete nel più completo silenzio. Capite cosa vuoi dire? Vuol dire che non cercate non volete, non andate a caccia di qualcosa; non c’è assolutamente un centro.
Allora c’è amore.
Che è come uscire di casa lasciandosi convincere da un’amica. È una serata come le altre e se anche comincia la tua vita per davvero, non ti ricordi nemmeno che giorno era. Sì, credo che l’amore sia questo. E vi partecipo in silenzio nelle piccole cose di ogni giorno. Anche da lontano perché spesso, non ci sono. Faccio orari strani, vivo sospesa tra due città e l’idea di casa riesce anche a scorrerci in mezzo, a tutto ciò che le collega ‘ste due città: la grande industria Made in Italy che costeggia l’A7. Guardo attentamente certi scatti costruiti e inviati quando non ci sono: domeniche a pranzo, il sonno dei bambini, gabbiani in alto mare, colazioni senza fretta. E immagino tutto. Alla fine, l’immaginazione è sempre stata una grande alleata: posso essere dove voglio. E sono nel deserto. Kibbutz Re’im, a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza. È una festa. C’è un rave, la musica rimbalza sulle dune, ma non è un party qualsiasi: è la festa di Sukkot, una delle più importanti, 29 settembre-6 ottobre.
Da “sukoth”, che è il plurale della parola ebraica sukah cioè “capanna”. Si torna indietro nel tempo, in ricordo del periodo “nel deserto” dopo l’Esodo biblico del popolo ebraico, rischiando tutto, abbandonando l’Egitto. Sognando un luogo in cui sentirsi a casa: la terra d’Israele. Casa, senza chiedere permesso a nessuno. Un sogno al quale credere. Segni dal cielo che si leggono come le lettere dell’alfabeto: le nuvole servono anche per sentirsi protetti. E così fu dentro le sukkot, tetti improvvisati fatti con frasche. Il cibo si condivide. Siamo tutti sotto lo stesso cielo: pace a te, resta con noi. E grazie per essere qui. Durante le preghiere si utilizzano quattro specie di vegetali: il lulav (un ramo di palma), l’etrog (un cedro), tre rami di mirto e due rami di salice. Tutto ha un perché, ma ci si inchina al mistero. Perché tutto non è possibile sapere, ma si può sentire dentro, nel profondo. In un luogo dove non ci sono mappe, nessuno può aiutarti, ci si perde, si viene via. C’è anche chi fugge e non ritenta, ma esiste. E va cercato.
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Chi è qui nel deserto del Neghev, a due passi dal confine con la Striscia, lo sa: si può cercare quel sentiero anche in modo leggero, stando insieme, spensierati. Si balla. È pieno di persone, più di tremila ragazzi. L’alba arriva presto. Si alzano i telefoni al cielo: foto da ricordare. Mentre qualcosa non torna, lo immagino. I miliziani di Hamas sono come ombre che si avvicinano. Arrivano a bordo di moto e furgoni blindati. Armati. Iniziano a sparare a chiunque. È difficile capire cosa stia accadendo, è una festa che va avanti da ore. C’è sonno nell’aria, ma anche voglia di vivere per sempre, di continuare a ballare oltre la notte. I proiettili non hanno direzione precisa. In molti cadono per terra, altri provano a scappare, ma è impossibile. Tra loro, c’è Noa, una ragazza di 25 anni. Le sue braccia cercano il fidanzato, Avi. Lui, però, viene fatto allontanare. Ha una pistola puntata addosso. Lei diventa un ostaggio, grida. Lui non può fare un passo, ma trova il coraggio di dire una parola, sapendo che potrebbe essere l’ultima. La dice ugualmente: “Non uccidetela”.
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Questa settimana sono accadute molte cose nel mondo, ma io resto ferma a questa supplica: “Non uccidetela”. Una supplica continua, ripetuta in ogni angolo da voci diverse. “Non uccidetela”, penso. Lasciatela andare. A casa.