Nei Natali c’è qualsiasi cosa - Fil Rouge n. 34
Come una vecchia cantina in cui accantonare cose di ogni genere
Onorerò il Natale nel mio cuore, e cercherò di conservarmi in questo stato d’animo per tutto l’anno.
Charles Dickens
Incontro Fabrizio per caso, alle casse automatiche del parcheggio, di fianco all’Acquario di Genova. È un portale di mondi questo spazio: turisti, croceristi, bambini, spedizionieri. Tutti camminano veloci con il mare sulla destra, gli alberi delle barche disegnano lo skyline, qualche gabbiano aspetta vicino alle reti dei pescatori. Gira il mondo gira, ma lui non mi chiede nulla mentre io pago, e lui controlla se qualcuno ha dimenticato qualche centesimo dopo avere ritirato il biglietto di uscita. Tante persone pagano con carta di credito, difficile ci sia qualcosa da recuperare. Fabrizio non è di qui, non ha una casa. Il perché è semplice, mi racconta, andava tutto bene, “avevo una vita come quella di tutti, un lavoro, poi succede che il lavoro non c’è più – dice – e ti ritrovi per strada”. È così che funziona? Chiedo. “Come?” Che improvvisamente non sai più come gestire le cose di ogni giorno poi gli affetti, i lutti, le bollette e ti ritrovi disorientato, travolto dal vivere? Lui risponde che può accadere, io gli credo.
Fabrizio non dorme nei centri di accoglienza, preferisce altri luoghi. “Con ì sacco a pelo che fanno oggi, non c’è pericolo di sentire freddo”, aggiunge. Io non sono d’accordo, ma capisco il senso: si è attrezzato. Lo vedo mentre entra in un negozio specializzato dove vendono sacco a pelo da montagna. Se piove, i luoghi sono altri, ma mai al chiuso. È questione di incontri, ho capito. Vivere in strada ha un tempo in scadenza. Meglio dire che sono tempi lontani l’uno dall’altro. C’è il tempo del lavoro, all’estero generalmente, e quello in cui si mette tutto in standby. Ha lo sguardo sincero, il volto pulito. Mi racconta dove vengono messe a disposizione doccia e bagno, come racimolare qualche soldo senza chiedere esplicitamente l’elemosina. Non è abituato alle domande e nemmeno che qualcuno si preoccupi per lui. Sorride.
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Nei suoi occhi viaggio nelle ore in cui scoprivo Charles Dickens, leggevo i suoi libri, e avrei voluto sapere tutto di lui. Lui che da bambino vede il papà finire in prigione per debiti, la casa spogliarsi, restare nuda perché i mobili vengono dati in pegno. Poi, il lavoro in una fabbrica di lucido da scarpe, la Warren’s Blacking Warehouse. Lavora dieci ore al giorno. Non c’è tempo per fotografare la fantasia, ma le cose stanno per cambiare senza nemmeno che lui lo immagini. In poco tempo sarebbe arrivata l’università, la prima opera teatrale da fare godere ogni cellula del suo corpo. Infine, l’inchiostro, le storie, letteratura da maestro di vita. E anche di strada. Con lei, gli spiriti dei Natali passati e futuri. Di ricordi da costruire a mano, pesando ogni rinuncia. Natali trascorsi al lavoro perché pagano gli straordinari, ma anche Natali in disoccupazione. Natali in famiglia senza averne voglia, Natali disperati che piangono grandi assenze. Ci sono i Natali in viaggio, quelli da dimenticare, oppure quelli tutti insieme, dove ci si alza alle 18 dal pranzo. C’è chi sceglie e chi non può. Chi ci nuota dentro stando in apnea, aspettando che passi, o sperando non finisca mai. Ci sono i nonni, i bambini, gente che si ama alla follia, le luci dell’albero, il profumo di brodo, il freddo che punge, carta dorata con dentro libri, sciarpe di lana, bracciali di pietre dure. I silenzi, anche. I “speriamo finisca presto”, mattarelli sempre sporchi di farina. I “non vengo” trovando una scusa. I rimorsi. Nei Natali c’è qualsiasi cosa, come fossero una vecchia cantina in cui accantonare cose di ogni genere. Anche quelle più belle che non si sapevano apprezzare. E allora, vicino al ricordo felice, c’è una dose di odio e di risentimento. Poi, la rabbia, il dispiacere. C’è la lacrima amara, quella mai versata. Dickens diceva che Natale è un bel giorno “un giorno in cui ci si vuol bene, si fa la carità, si perdona e ci si diverte: il solo giorno del calendario, in cui uomini e donne per mutuo accordo pare che aprano il cuore e pensino alla povera gente come a compagni di viaggio verso la tomba e non già come a un’altra razza di creature avviata per altri sentieri”.
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“Come ti chiami, tu?”, chiede Fabrizio. Quanti nomi potrei inventarmi, penso. In una settimana in cui conto i morti sul lavoro: Milano, Siena, Savona. Il Patto di stabilità monopolizza il dibattito politico, Amnesty pubblica un nuovo rapporto sugli stupri in Iran, in Brasile è stata approvata una legge creata dall’intelligenza artificiale. Mi chiamo Francesca, e spero tanto che lo spirito del Natale presente ti riporti a casa. A ricominciare.