A questo punto Kublai Kan s’aspetta che Marco parli d’Irene com’è vista da dentro. E Marco non può farlo: quale sia la città che quelli dell’altipiano chiamano Irene non è riuscito a saperlo; d’altronde poco importa: a vederla standoci in mezzo sarebbe un’altra città; Irene è un nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia. La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s’arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene.
Italo Calvino, “Le città invisibili”
Il giorno in cui l’ultimo dei Gran Khan decide di invadere il Giappone, 749 anni fa, prova a farlo con un messaggio. Una cosa del tipo: sottomettetevi. Onesto, se ci penso. Ma dall’altra parte ci sono dei samurai, non militari semplici; è gente studiata e costruita per servire. Una casta di uomini colti che si prepara alla guerra in modo gentile, suddividendo la giornata in ore dedicate alle arti marziali e al bere tè. Regole precise, una sorta di ti uccido senza sporcare troppo la stanza; poi, incido il tuo nome su un chicco di riso che conservo nella sala del buio. Il codice di condotta è come la tavola dei comandamenti: elevati al di sopra delle masse che hanno paura di agire, sii immensamente leale verso coloro di cui ti prendi cura, non promettere. Sette principi in tutto. Compreso quello che recita: “Il miglior combattimento è quello evitato”. Che è un po’ quel che succede quel giorno, nel 1274. Kublai Khan invia 45 mila uomini e un migliaio di navi: vuole prendersi la terra che ha scelto.
Quel giorno, però, non ci sono samurai, ma un uragano a difendere il Giappone. I soldati tornano a casa decimati. Destino? Forse. Nessuno ha mai saputo la reazione di Khan. Che comunque, ci riprova sette anni dopo. È il 1281. Ci va preparato: una flotta di circa 1.170 grosse giunche da guerra, ciascuna lunga oltre 70 metri. Pensa di avere a che fare con dei samurai, ha una specie di bomba a mano dalla sua parte; è un vantaggio. Crede di vincere anche se i mongoli non sono molto bravi a usare certe armi. Eppure, per la seconda volta, di fronte al suo esercito, non ci sono quegli uomini colti e delicati, ma un nuovo uragano. Ça va sans dire che eserciti cinese e coreano dei mongoli (o quel che ne resta) tornano al mittente. La potenza di vento e pioggia insieme fanno crollare il mito dell’eroe. Quel mito che continuava ad aumentare di potenza anno dopo anno. Storie che facevano il giro del regno e più lontano. Dove, chi lo sa? In luoghi in cui prima o poi si veniva a sapere tutto, anche degli uragani. Coincidenze, forse, e grandi risate da parte dei nemici più miserabili. Ma lui non ne ha la minima percezione. Nella sua testa c’è una terza missione da preparare. E non importa se prima c’è l’aumento delle tasse (perché è questo il costo di una guerra), l’aumento dell’inflazione, la povertà del popolo. Lui vuole il Giappone. La morte arriva prima. Come fosse tra i custodi del confine, come un samurai, si porta via ogni ambizione. E lo fa molto lentamente: Khan ha la gotta. All’epoca, non sanno nemmeno cosa sia questa malattia del metabolismo. Mangia solo carne, mangia male; pranzo e cena con cuore, fegato e reni di animali. Organi interni anche a colazione. Nel frattempo, muoiono la moglie e il suo erede. Non si fa vedere vulnerabile da nessuno, ma continua a mangiare fino a morirne. Seduto sul trono, sognando la spada di un samurai appesa all’ingresso della stanza.
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Se ne va più o meno così, con l’ombra di un obeso che lo segue quando si mostra in pubblico: “I suoi occhi di lampo, le sue chiome fluenti”, come scrive Coleridge dopo uno strano sogno nell’estate del 1797. È “una danza di pietre e di cristalli”, una visione remota, come se il sonno lo avesse portato indietro nel tempo, in un luogo di delizia, costruito con questo proposito: il piacere di godere. Qualcosa di proibito, “latte di paradiso”, dice. Anche se è un bicchiere che resta solo assaggiato, non finito, perché qualcuno bussa alla porta e lo sveglia. Lo fa tornare nella casa delle vacanze, è estate come quando si era addormentato: l’uomo di Porlock. Toc, toc. La casa è in mezzo al nulla tra il villaggio di Porlock e quello di Linton. Chi è? Coleridge non lo avrebbe mai rivelato a nessuno. Ma una timida risposta sarebbe arrivata inaspettata da Lisbona, da Pessoa: “È il seccatore inatteso”. Tu dici?, penso. Pessoa ne è sicuro perché “a tutti noi, anche se nessuno viene a trovarci, si presenta dal nostro intimo “l’uomo di Porlock”. La somma vivente di ciò che impariamo, di ciò che pensiamo d’essere, e di ciò che desideriamo essere”. E fa toc, toc. E non ti ricordi più nulla o te lo ricordi, ma poco. Viene a distrarti. Ti ricorda che se ricevi l’invito alla corte di Kublai Khan, sarebbe uno spreco dire di no. Aspetta che ti prepari, ti osserva mentre ti perdi in “due volte cinque miglia di terreno fertile”. Davanti a te ci sono delle torri, il cedro, demoni e fiumi sacri. Un paradiso da ricordare e di cui non parlerai a nessuno. Irene? No, Irene si vede solo da lontano. Non è quello che sembra. Alla fine, niente lo è, nemmeno la realtà: “Tu che ti senti ai fianchi l’uragano, tu dai retta alla sua piccola mano”. E l’invisibile si scatena spazzando via flotte di navi pronte alla conquista.
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Come l’uomo nello spazio, l’intelligenza artificiale sul lavoro, il mix di droga a basso costo. Difficile intercettare la direzione del mondo, ma una cosa io la so: Irene è un nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia. Secondo me, piove.