L’attesa è un esercizio difficile - Fil Rouge n. 26
Memoria, orologi cerebrali e abitudini di ogni giorno: ecco cos’è il tempo
Posso guardare le montagne senza il desiderio di scalarle. Quand’ero giovane le avrei volute conquistare. Ora posso lasciarmi conquistare da loro. Le montagne, come il mare, ricordano una misura di grandezza dalla quale l’uomo si sente ispirato, sollevato. Quella stessa grandezza è anche in ognuno di noi, ma lì ci è difficile riconoscerla. Per questo siamo attratti dalle montagne. Per questo, attraverso i secoli, tantissimi uomini e donne sono venuti quassù nell’Himalaya, sperando di trovare in queste altezze le risposte che sfuggivano loro restando nelle pianure. Continuano a venire.
Tiziano Terzani, “Lettere contro la guerra”
L’attesa è un esercizio difficile. Probabilmente, il più complicato. L’etimologia delle parole è, per me, come una bussola. Ne intercetto il senso da sola e poi chiedo aiuto al latino o a qualche altra “madre” di parole. Qui, dice “ad e tendere”, cioè “volgersi a”. Sono qui, in sala di attesa, perfetta metafora. La sala di attesa è luogo fisico o immaginario. Ci siamo quando speriamo di fare la rivoluzione oppure in posta, controllando quanti “numeri” hanno preferito lasciar perdere. Siamo in una sala di attesa anche quando siamo di fretta, ma in ospedale, si tratta di geometrie aperte, senza porte. Le persone prendono posto sulle sedie nere, dicono tra loro frasi come “da quanto tempo aspetta?”. Mezz’ora? Quaranta minuti? Non sai quantificare. Qui il tempo non esiste.
La fisica quantistica parla di “universo a blocchi”, in cui spazio e tempo camminano insieme. Orologi come gingilli da mostrare, niente di più. Per dirla alla Max Tegmark: “L’unico motivo per cui sento di avere un passato è perché il mio cervello contiene ricordi”. Quindi, memoria, orologi cerebrali e abitudini di ogni giorno: ecco cos’è il tempo. Alla fine, funzioniamo in modo semplice anche se sembra complesso. Se siamo distratti, cioè se ci lasciamo travolgere dall’emozione, il meccanismo va in tilt: la percezione delle lancette viene automaticamente alterata. In ospedale, per esempio, la gente non ha mai sete. Non mangia, ma si sorride. Crea mappe catastrofiche: Lei dove? “Io pancreas”; e lei? “Polmoni”; e lei? “Vediamo cosa dice la Pet”. Ci si fa gioco dei weekend in cui non si fa niente perché piove. Intendo dire che qui, si costruisce il “nulla” con le mani, senza senso di colpa. Tipo: oggi si “perde tempo” e nessuno intorno giudica. Immagino delle porte segrete nascoste in ogni angolo: ognuna di esse ci conduce a un futuro possibile. Le chiudo tutte nella mia mente. Faccio veloce, nessuno se ne accorge. La porta di destra va nella direzione di altri accertamenti, quella di sinistra in un mondo parallelo. Davanti una specie di “pit stop” dove cambiare le gomme, alle mie spalle c’è la porta di uscita. Difficile tornare indietro con gli stessi vestiti. Ma in sala di attesa, la ignoriamo. Stiamo tutti vicini. Chi non è abituato a salutare per strada, inizia a parlare. Sulle nostre teste, c’è un roseto immaginario, le sedie nere lasciano posto a quelle vecchie seggiole di casa che si mettevano fuori dal portone intorno alle 18 o dopo cena: ci si sbottona. Si chiacchiera, si prova sollievo.
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Le sale di attesa sono un luogo dove ci ricordiamo che siamo esseri umani. Fuori, avanzano le guerre. Escono dai libri di storia, tornano davanti ai nostri occhi come un fantasma che ha sempre sognato di farsi vedere per farci paura. Lo fa il colera in qualche paese africano, ma anche la tecnologia del futuro. Ma noi stiamo qui, oggi, stiamo in attesa del pensiero più bello.
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