Alma è solo Alma - Fil Rouge n. 19
Una vita trascorsa tra una vetrina e una gabbia sempre diversa dalla quale uscire senza liberarsi mai
So perché non sono mai stata molto fedele nella mia vita. Sono troppo molteplice per poter appoggiare l’anima su un solo cuore. Tutto m’interessa…
Alma Margaretha Maria Schindler
C’è chi la chiama Alma Mahler, chi “la regina del Dom Benedictine”, ma anche femme fatale, la musa delle “menti” del Novecento. Per me, è Alma Margaretha Maria Schindler, nome e cognome di battesimo. Nata il 31 agosto 1879 a Vienna. Una vita di fuoco che arde, talento per il pianoforte. Amici e amori che hanno cambiato la storia della musica, della pittura e dell’architettura. Ma anche la sua vita, trascorsa tra una vetrina e una gabbia sempre diversa dalla quale uscire senza liberarsi mai.
Il primo che perde la testa è Gustav Klimt. I quadri parlano. Alma ha 17 anni, lui ne ha molti di più. La madre di Alma non ci sta. Klimt è sposato, ha dei figli. Prova a rimediare partendo per un viaggio con la figlia in Italia. Niente da fare, il pittore le trova. Ma dove non arriva la tutela della madre di Alma, arriva il destino: una cena tra amici. Un noto compositore è tra gli invitati, si chiama Gustav Mahler, è un colpo di fulmine senza scampo (e Mahler è di due anni più vecchio di Klimt). Ne sarebbero arrivati altri, anche se la storia – chi la scrive, più che altro – si sarebbe concentrata su Oskar Kokoschka (pazzo d’amore, la ritrae 400 volte. Il giorno in cui lei lo lascia per un altro, si fa costruire una bambola identica ad Alma, ad altezza naturale, da tenere sempre vicina come avrebbe voluto nella realtà. Ingredienti perfetti per un romanzo). Ma io dimentico tutti, compreso Walter Gropius e Koloschka (e anche il suo dipinto più noto “La sposa del vento”, che si trova al Kunstmuseum di Basilea, perché mi fa venire cubetti di ghiaccio al posto del sangue).
Torniamo a Mahler. Anche lui ossessionato, anche lui vorrebbe che Alma abbia occhi solo per la loro storia. Che poi, la storia di Mahler prevede soprattutto capolavori musicali scritti in una casa lontana dal mondo (e una moglie senza distrazioni, nemmeno al pianoforte). Comunque, è qui che stiamo andando: Dobbiaco, Trentino Alto Adige: la porta sulle Dolomiti. Il sogno è una casetta di legno nel bosco. Il sogno si realizza. Qui può scrivere musica. Nessuno bussa mai alla porta. Il maestro non vuole essere disturbato. Qui nasce la Nona Sinfonia (1909). Mahler sa che sta rischiando, ma dice di avere già pronta la decima. Nessuno sopravvive alla nona. E questa storia è molto più che una leggenda, la chiamano “la maledizione della nona”.
Accade ad Anton Bruckner che muore al pianoforte quando manca poco alla fine. Louis (Ludwig) Spohr ha tempo di iniziare la decima senza mai finirla. Franz Schubert, Ludwig Van Beethoven. Inno alla gioia? Fino a un certo punto, ma le note sono messe insieme dagli angeli, ancora oggi è un mistero. Ci sono anche Antonín Dvořák e… Gustav Mahler, la cui nona sinfonia è considerata la più importante del secolo. Ipocondriaco, Mahler è soprattutto malato. Sa che sta sfidando la sorte, ma sa anche che non può tirarsi indietro davanti a ciò che sente. Il direttore d’orchestra Leonard Bernstein l’avrebbe sempre paragonata a “uno stato di meditazione trascendentale dove l’Ego si dissolve”. Una porta senza maniglia che si apre da sola e si spalanca, fa quel che vuoi: esci, se ti senti in trappola. Fuori, le Dolomiti, ma se preferisci il mare, o il casello di Milano direzione Pavia, giù di lì. Vai più distante, si chiama libertà. Mahler si libera. Muore poco dopo, maggio 1911. Chi ha capito, o si è sentito turbato, si ferma prima: Jean Sibelius è immobile davanti all’ottava. La legge, cancella, la fissa, la brucia, la promette. Ma non arriva mai. Nemmeno a Sergej Aleksandrovič Kusevickij e tantomeno a Basil Cameron. I due direttori d’orchestra continueranno ad aspettare invano. Sibelius ha cibo per le fiamme: tutto ciò che non lo convince va in fumo. Scrive e cancella. Quando, nel 1951, la Royal Philharmonic Society chiede qualcosa di nuovo per il Festival della Gran Bretagna, lui rifiuta: “Non ho nulla per ora, è nella mia mente però”. Sibelius, classe 1865, muore il 20 settembre 1957. E con lui l’ottava. Della nona, nemmeno a parlarne. Per Alma sono gli anni dedicati a Franz Werfel, penna madre de “I quaranta giorni del Mussa Dagh”, libro sulla resistenza e il genocidio degli armeni da parte dei turchi. Capolavoro anni Trenta. Litigate furibonde in casa. Se per Mahler il mondo era un luogo nascosto in una casa di legno, per Werfel il mondo sta fuori, è pura ingiustizia. E per un momento, è contro di lui che è ebreo. Nel 1940 la coppia fugge verso la Francia. Si ferma a Lourdes perché Werfel è curioso, vuole sapere di più su Marie Bernarde Soubirous, detta Bernadette. Scrive un libro.
Alma non è solo Alma, ma Alma Mahler-Werfel, ha una scia di cognomi che la insegue. Ma anche di calunnie, dicerie, maldicenze. C’è di tutto, comprese nuove lingue, nuovi dialetti, nuovi paesi e nuovi lutti. Dalla Spagna dei franchisti agli Stati Uniti. Werfel muore di infarto il 26 agosto 1945. La scia di cognomi non si dissolve, ma Alma è sola. È a New York, sempre viva, sempre bella. Vicino a lei, figli e carta da scrivere. Non ha mai smesso di scrivere sui suoi diari. Qualcuno dice che manomette la storia. Molto di quel che sappiamo su Mahler è grazie a lei. Altri – Walter Gropius, anche lui ex marito – prova a smentire quello che pubblica sul loro matrimonio. Piovono critiche, pochi le credono, ma tutti avrebbero fatto qualsiasi cosa per averla vicino. Alma Margaretha Maria Schindler, vive nell’Upper East Side. Muore l’11 dicembre 1964 e chiede solo una cosa: di essere seppellita vicino a una figlia morta troppo piccola (Manon Gropius) e a Gustav Mahler, al Grinzing di Vienna. Potessi parlare con uno degli hacker di telescopi spaziali gli direi proprio così: puntatemelo lì che voglio vedere.
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